31 ottobre 2006

Modelli di business

Dispensa


Tre distinte fonti di finanziamento caratterizzano la scena dell'offerta TV: il canone corrisposto e tipicamente a vantaggio del servizio pubblico radiotelevisivo; l'abbonamento ad un servizio privato di TV a pagamento (e fin qui sono gli utenti a sborsare); e infine la pubblicità (e qui sono invece gli inserzionisti a pagare). Sul mercato in molti casi questi modelli di business sono applicati in modo puro ed esclusivo: ad esempio le TV commerciali di tutto il mondo finanziano la propria offerta gratuita agli utenti attraverso la pubblicità; la BBC vive di solo canone e non raccoglie un solo pound di pubblicità; Disney Channel si finanzia solo con la sottoscrizione degli spettatori: non percepisce ovviamente canone e, per scelta storica, non ospita pubblicità. Altre volte però, e sempre più spesso, troviamo applicazioni eccentriche dei modelli (ad esempio il servizio pubblico spagnolo non percepisce canone e si finanzia solo con la pubblicità; per l'accesso alla TV via cavo in Germania si paga una quota delle spese condominiali: un abbonamento pay reso inevitabile quanto è più di una tassa!); o applicazioni temporanee (ad esempio, il canale inglese Film Four, dopo anni di vita a pagamento ha deciso quest'anno di diventare un canale free, finanziato dalla pubblicità); o applicazioni ibride (sappiamo bene che la RAI vive sia di canone che di pubblicità, ma anche quasi tutte le pay del mondo non disdegnano affatto questa fonte di introito). Storicamente, comunque, questi modelli di business hanno dato vita a due grandi configurazioni d'offerta televisiva, che hanno dominato la scena negli ultimi 15 anni: da una parte, l'offerta gratuita: pochi canali generalisti, finanziati dalla pubblicità e dal canone. dall'altra parte, l'offerta pay a subscription: centinaia di canali, aggregati da un operatore che governa l'intera filiera del servizio (decoder, billing e fatturazione, packaging editoriale, marketing,...). Questi canali pay vivono in parte del fee che l'operatore riconosce loro per stare nel bouquet - e dunque entro i perimetri dell'offerta a pagamento - e in parte dei ricavi pubblicitari, che iniziano solo oggi a contribuire significativamente al loro conto economico. L'offerta pay a subscription può arricchirsi di contenuti ulteriori, accessibili a richiesta (la pay-per-view, il video on demand, i canali à la carte,...). Ma questa flessibilità è consentita solo all'interno di un rapporto contrattuale, l'abbonamento, che comporta un pagamento mensile a fronte della fornitura di un set di contenuti e servizi. Due forme d'offerta quasi antitetiche, dunque. Da una parte, gratis ma poco. Dall'altra, a pagamento e tanto, secondo la formula "all you can eat". Questi due paradigmi hanno, fino ad oggi, rappresentato l'alternativa di base per lo spettatore TV. Di recente pero' si sono affacciati sul mercato numerosi modelli intermedi e alternativi. Vediamo brevemente i più rilevanti. Anzitutto il multichannel free. Si tratta della proposizione di un bouquet di canali gratuiti, numericamente non ricchissimo (30-50 canali, contro i 120-200 canali delle offerte a subscription), ma qualitativamente assai dignitoso. Una sorta di "basic", ma gratuito. E' ad esempio l'offerta di Freeview, la piattaforma digitale terrestre inglese, che sta riscuotendo un enorme successo. Ma anche in Francia, con TNT, e in Italia, con la neonata TIVU', l'offerta di un bouquet gratuito di canali sul digitale terrestre sta funzionando bene. Un secondo modello emergente, specie sul digitale terrestre e sulle offerte IPTV e cavo, è quello dell'offerta di un mini-bouquet a pagamento. La scelta è più limitata rispetto alle opzioni più tradizionali (ad esempio del satellite) ma i canali sono buoni (spesso, gli stessi del satellite) ed le condizioni di accesso sono assai meno onerose (pochi euro al mese, di solito 9-10), e più flessibili ( fino all'acquisto mese per mese). E' il modello cosiddetto "mini-pay" o "pay light". Esempi interessanti sono TopUpTV, sempre in UK, ed anche le recenti offerte lanciate dagli operatori DVBH in Italia. Un terzo modello che finalmente, dopo tanto parlare, comincia a prendere piede è quello del Video On Demand, cioè della proposizione di contenuti video accessibili a richiesta: compro quello che voglio e lo vedo quando e come voglio (sono disponibili tutte le funzioni VCR: pausa, rewind, fast forward,....). Questo modello risponde in modo straordinario alla richiesta di flessibilità e personalizzazione che viene dal mercato. Tuttavia, va detto che ad oggi le offerte VOI) sono disponibili solo "on top" alla subscription per l'accesso a bouquet e ad altri servizi; e questo ne limita molto le potenzialità commerciali. Un quarto modello è costituito dall'offerta di contenuti in regime di pay-per-view puro, cioè libero da qualsiasi vincolo di sottoscrizione. E' il caso di Mediaset Premium e di LA7 Carta più, che offrono l'accesso a contenuti singoli (o volendo a pacchetti), acquistabili con una carta prepagata ricaricabile. Nel caso di LA7 Carta più, la transazione comporta l'obbligo di effettuare una telefonata o di mandare un messaggio; nel caso di Mediaset Premium invece l'utente è ancora più libero: compra con il telecomando senza dover attivare alcuna connessione. Qui l'accesso ai contenuti pregiati, come si diceva, è diretto e non prevede alcun abbonamento. Un quinto modello emergente, poi, è quello dell'offerta di contenuti (di flusso 0 spacchettati) in modalità free su portali web a cui si può accedere per vedere ciò che è in onda e soprattutto per recuperare i programmi TV che si sono persi. Molti content provider e broadcaster stanno organizzando un'offerta di contenuti free su video portali web (BBC, NBC, ITV,..), alcuni dei quali fondati sull'architettura distributiva peer-topeer. Un sesto modello, infine, è quello del triple play, in cui si assommano servizi voce, connettività broadband e video su IP. In questo caso i contenuti TV non sono accessibili se non in "bundling" con altri servizi. La possibilità di personalizzare il menù di visione è qui assai spinta (in certi casi, si può comprare il proprio del bouquet scegliendo da una lista ampia di canali) ma la flessibilità è consentita solo all'interno del rapporto vincolante di subscription, con elevati costi di ingresso (da 260/€ anno a 550/€ anno, in Italia) e di uscita. Questo modello, nato su piattaforme IP fisse (in Italia con Fastweb e Alice Home TV di Telecom) è ora sostanzialmente praticato anche su piattaforme mobili, grazie all'offerta su terminali ibridi DVBH/UMTS. I sei modelli citati non esauriscono ovviamente lo spettro delle soluzioni di business possibili: già oggi registriamo molte altre forme di offerta promiscue, frutto della combinazione o della contaminazione delle modalità più tradizionali (push-vod, subscription vod, free-vod, quadruple play, pod-casting, download-to-own,.... ). Ciò che mi preme segnalare qui è proprio il forte dinamismo commerciale che sta animando il comparto dell'offerta di contenuti TV. Un fermento che sta spingendo i ricavi da spesa diretta dell'utente a superare - su base media europea - i ricavi da canone. Una seconda cosa, importante, va annotata. Non sempre l'articolazione dell'offerta televisiva sui vari mercati segue il principio della corrispondenza fra valore del contenuto proposto e prezzo d'accesso. Ogni mercato ha una storia ed una logica a sé. Gli inglesi ad esempio, hanno un'idea ben precisa di quale differenza ci sia tra una casa in South Kensington e un alloggio nei suburbs di Londra, tra un blue-collar e un whitecollar, e anche, tra l'offerta BSkyB e quella della TV analogica terrestre. Sarà perché commerciano per mare da secoli... ma la nozione di value for money è in loro ben radicata. E così è facile rintracciare un rapporto quasi lineare, nel loro sistema d'offerta televisiva, tra la qualità/valore percepito dei contenuti e il denaro necessario per accedervi. La proverbiale qualità della BBC (che per gli inglesi comprende a pieno titolo la trasmissione di dards e boccette), l'esplosione continua dell'offerta di Freeview, e la crisi recente dell'operatore pay Top Up TV (che pare riassorbito all'interno dei piani di espansione sul DTT di Channel 5) non cambiano la diagnosi del fenomeno: in UK se vuoi contenuti premium devi pagare (con le uniche eccezioni di Olimpiadi, Mondiali di calcio, due partite di Champions League e Formula 1). Più paghi, più hanno valore i contenuti a cui hai accesso. Su questo continuum progressivo si declinano l'offerta free analogica, quella digitale terrestre di Freeview, l'opzione pay-light, l'offerta basic e quella premium di Sky e degli operatori cavo. In Italia, invece, la situazione e assai più fluida e confusa. La ricchezza della nostra offerta in chiaro non ha paragoni nel resto d'Europa. Anzitutto, sotto il profilo quantitativo: abbiamo più canali free nazionali (non considero quindi le oltre 500 TV locali!) e dunque più ore di programmazione gratuita: da un 30% in più rispetto ad UK, ma anche a Francia e Spagna, a145% in più rispetto alla Germania. Ma anche il peso e la qualità dell'offerta italiana in chiaro sono ben diverse da quelle degli altri paesi : + 30% di film rispetto ad UK (100% in più rispetto a Spagna e Germania, e addirittura + 300% rispetto alla Francia); + 100% di fiction (serie, miniserie, soap,....) rispetto a tutti nota (citare rapporto di ricerca E-Media). In questo contesto, la Pay TV ha sempre fatto fatica ad imporsi come fenomeno di massa: a parte il calcio in diretta (campionato e coppe) e qualche sport definito" minore" (tennis, basket, volley....), tutti gli altri contenuti non godono di esclusiva per il mondo pay, ma solo di una finestra di sfruttamento anticipata (12 mesi il cinema, 6 mesi circa le serie,...). Per contro, la disponibilità a pagare per vedere la TV non fa parte della cultura del nostro paese (a partire dal canone della RAI!) e l'offerta "all you can eat" a fronte di abbonamenti abbastanza onerosi (per Sky si va da un minimo di 288 €/anno a 660 €/anno) non aiuta a superare le resistenze. L'introduzione della pay-per-view con tessere ricaricabili ha, come si dice, "sparigliato" le carte, ponendosi come offerta di contenuti pregiati - il calcio in diretta e il cinema nelle medesime windows di Sky - a basso costo di ingresso e a basso impatto psicologico e "ambientale" (le negoziazioni familiari sono assai meno problematiche). Ma ancora le dimensioni del fenomeno "paghi quello che vedi" non autorizzano a parlar di mercato di massa. L'introduzione possibile di modelli "pay-light", come detto, sulla scorta della controversa ma interessante esperienza di Top Up TV, potrebbe articolare ulteriormente il ventaglio delle opzioni, rendendo ancora più arduo rintracciare una correlazione tra valore percepito dei contenuti e disponibilità a pagare per riceverli. Il quadro è ulteriormente complicato dall'affacciarsi dal triple-play su rete fissa e della Mobile TV. Il triple-play, come detto, consiste nell'offerta integrata di voce, internet broadband e contenuti audiovisivi da parte delle compagnie telefoniche. Un'unica bolletta abbraccia tutti i servizi di connettività dell'utente, grazie alla convergenza di voce, dati e contenuti A/V sul protocollo IP. Oggi sembra difficile intravedere un business incrementale nella fornitura di contenuti TV sul doppino telefonico: più che una reale opportunità di ricavi, a muovere le telco verso il triple-play è la necessità di fermare l'emorragia dei ricavi da telefonia fissa e dunque di riqualificare la connessione il wired". Ma da questa necessità possono scaturire scenari nuovi e imprevedibili: come potrà essere la TV una volta distribuita su una piattaforma realmente interattiva? Quanto si affermerà il consumo di contenuti on demand, svincolati dalla logica della linearità? Che trasformazioni possono subire la progettazione editoriale e il marketing televisivo una volta che il broadcasting incontra il web? Quali modelli di business potranno svilupparsi in questo ambiente? Considerazioni non molto diverse si possono fare per la Mobile TV. Anche qui ci sono scettici che non riescono ad intravedere un business case incrementale per le telco (chi guarderà la TV su un telefonino? E quanto, soprattutto, sarà disposto a pagare per farlo?). Ma ci sono anche visionari che considerano la portabilità (1'indossabilità, direi) della TV un valore di grande potenziale, anche economico, che per potersi manifestare aspetta solo per il giusto equilibrio fra costi e benefici. Value for money, direbbero i nostri amici inglesi.

Fruizione

Dispensa


Lo abbiamo già detto più volte: se c'è una parola che racchiude lo spirito dell'innovazione digitale che è alle porte, questa è personalizzazione. Personalizzazione, anzitutto, delle scelte e delle forme di consumo: - C'è una grande offerta di canali per tutti i gusti (il multichannel) e vasti repertori di contenuti sempre disponibili (gli archivi on demand). - C'è l'ausilio di guide al consumo (EPG) e di motori evoluti di ricerca che mi consentono di trovare facilmente quello che voglio o che, addirittura, mi propongono ciò che verosimilmente desidero. - C'è una vasta offerta di terminali e devices portatili (Pod, Videofonini, Palmari...) che mi permettono di accedere al contenuto in qualsiasi momento. - C'è una crescente disponibilità di cache domestiche (PVR, Videostation, Mediacenter....), anche individuali (Pod, Handset con memory stick, PC, ....), per memorizzare ciò che mi interessa e poterlo poi vedere dove e quando voglio. Personalizzazione vuol dire anche possibilità di interloquire individualmente con il contenuto (enhancement) o di interagire, attraverso il contenuto, con altri consumatori (chatting, gaming,...) o con altri soggetti, fornitori di servizi. In tutti i casi, la modalità "push" che dominava le forme d'offerta e consumo della TV tradizionale sembra andare in crisi, a vantaggio della modalità "pull" che è senza dubbio la preferita dagli utenti della rete, e che potrebbe imporsi, secondo alcuni, anche come logica dominante nella prossima stagione della TV digitale. Compimento e paradossale esito della personalizzazione delle scelte e delle forme di consumo è la trasformazione dello spettatore da puro fruitore, per quanto selettivo e interattivo, ad autore. Nel nuovo mondo digitale, infatti -e specie in quello della rete - personalizzazione significa anche possibilità di pubblicare qualcosa di personale: un pensiero, un messaggio, o un filmato, un diario. Pubblicare non è solo editare; è anche e principalmente condividere, ciò creare le condizioni per un contatto, uno scambio. Forse anche una relazione. L'immagine digitale può essere spedita da un telefonino all'altro; può essere inviata in rete o depositata in un sito perché gli altri vadano poi a vederla. Essa non è solo, dunque, uri immagine (magari più bella o più economica di quella analogica); è anche, e soprattutto, un potenziale oggetto di scambio. Questa è una delle rivoluzioni, ancora largamente inespresse, che la tecnologia digitale sta portando nel mondo dei contenuti audiovisivi, di informazione e di intrattenimento. I videoportali alimentati da sterminate community di consumatori/produttori di contenuti sono un'interessante ambiente di studio di ciò che potrebbe diventare, almeno in parte, la TV di domani. Evidentemente, questo è un passaggio delicato, che mette in gioco dinamiche profonde. La TV di oggi, infatti, si basa ancora in larga misura su una adesione eminentemente "proiettiva", in cui viviamo ciò che ci viene proposto come se quelli fossero i nostri mondi, partecipando dunque in modo vicario (l'allineamento proiettivo scatta nei confronti dei personaggi della fiction, ma anche verso i concorrenti di un quiz, verso i partecipanti ad un reality, verso i protagonisti di un fatto di cronaca,.......). La "Tv dal basso", come è già stata battezzata, comporta invece una partecipazione "pro-attiva", non mediata, diretta. E' un'esperienza non più proiettiva e vicaria, ma effettiva ("Questo sono io, davvero. Parliamone"), che comporta una continua inversione di ruoli tra chi comunica e chi riceve. Dal contenuto rigorosamente "etero" (etero-prodotto, etero-consumato) della televisione degli anni '50, '60 e '70, si era passati progressivamente ad un contenuto più ambiguamente "omo" (la neo-TV degli anni 'S0, '90 e oltre si fonda sull'essere "come te e con te", sull'irruzione della quotidianità nella TV e della TV nella quotidianità, sulla ferializzazione di storie, eroi e linguaggi, e sul ruolo del conduttore come mediatore, primus inter pares). Adesso, l'evoluzione sembra portare verso il contenuto "auto": auto-compilato (la personalizzazione delle scelte e delle forme di accesso); autoconsumato (l'individualizzazione delle occasioni e dei modi di visione) e anche autoprodotto (la messa in rete di un pezzo di sé o di un proprio alter-ego). Una deriva dagli esiti davvero imprevedibili.

30 ottobre 2006

"Il nuovo Bill Gates odia Bush"

Lettura

Articolo di Claudio Cerasa su Il Foglio.

Il nuovo Bill Gates si chiama Eric Schmidt, ha cinquant'anni (come Gates), è uno degli uomini più ricchi del mondo (un po' meno di Gates), è il capo di Google, capo di Apple, democratico, amico di Al Gore, amico di John Kerry, amico di Bill e Hillary Clinton e le prossime elezioni potrebbe deciderle lui.
Era il settembre del 2000 quando sul muro dell'ufficio al numero 1.600 di Amphitheatre Parkway, nella città di Mountain View (California), Sergei Brin e Larry Page, i due fondatori del motore di ricerca più importante del mondo (Google), iniziano a proiettare la biografia di Eric Schmidt. "This is your biography", gli dicono. Le luci erano spente, il proiettore accesso, Larry e Sergei erano seduti ai due lati del tavolo di cristallo e stavano cercando la terza persona per la direzione di Google. Avevano scelto Eric, ma lui ancora non lo sapeva. Il colloquio dura un paio d'ore, i due ragazzi (allora ventiseienni) passano tutto il tempo a criticare, provocatoriamente, le precedenti scelte fatte da Schmidt, nella sua vecchia azienda: la Novell. Eric capisce il gioco: resiste, parla, incassa e sorride. Poi esce dalla sala e ci pensa un attimo. La sua biografia, Eric, non l'aveva mai data a nessuno. Brin e Page l'avevano costruita da soli. L'avevano
trovata su Google.

Sei mesi dopo, Schmidt diventa capo di Google; assieme a Page e Brin. La direzione
di Google è un triumvirato, ogni tipo di decisione viene presa con una maggioranza di almeno due terzi. Arriva Schmidt, ma arrivano anche le prime malizie. Schmidt ha quasi la stessa età di quella che i due fondatori di Google hanno sommando le proprie. E c'era, quindi, qualcuno che vedeva il suo arrivo a Google soltanto come un tentativo per fortificare l'immagine della giovane azienda, appena quotata in Borsa. Ma le cose non stanno così. Google è entrata in Borsa e Schmidt l'ha fatta decollare. E non solo con la sua faccia. Nel 2001, subito dopo aver accettato l'incarico, i suoi ex colleghi dicono a Eric: "Ma scusa. Dove vai? Non lo sai che Internet è finito?".
L'undici settembre era passato da poco. Ma a giugno, Schmidt aveva già annunciato il suo primo trimestre positivo. Da quel giorno in poi, Google, di trimestri negativi non ne ha avuto neppure uno. E per questo Schmidt ora ha anche iniziato a comprare. Lo ha fatto pochi giorni fa, quando per acquistare You Tube ha speso 1,6 miliardi di dollari. Ma lo ha fatto anche qualche mese prima, comprando un grande ingegnere. Si chiama Kai-Fu Lee, era uno dei migliori talenti di Microsoft. Schmidt lo acquistò. Bill Gates e il suo manager più rappresentativo, Steve Ballmer, non la presero bene. Secondo una ricostruzione affidabile, Ballmer accolse la scelta di Kai-Fu Lee in questo modo: "Bastardo. Non dirmi che è lui. Non dirmi che è Schmidt. Oh, cazzo. Certo che è lui. Quel fottuto bastardo. Lo faccio a pezzi, lo faccio a pezzi. Cazzo. Lo faccio a pezzi". Ballmer, ovviamente,non conferma la ricostruzione. Il succo, però, resta quello.

L'ultimo acquisto di Google, You Tube, è stato il colpo più importante fatto da Google in tutta la sua storia. Ma anche il più costoso. You Tube è il più importante contenitore di video on line. Funziona così: chi vuole fa un video, lo scarica sul computer, lo invia a You Tube e You Tube lo mette in rete. Semplice. Google aveva già provato a lanciare un suo servizio di produzione e distribuzione video ed era diventata la terza azienda sulla rete anche in questo settore. Aveva il dieci per cento. Lo stesso aveva fatto Bill Gates, con Microsoft, e Rupert Murdoch (attraverso My Space). Ma a Schmidt non bastava. You Tube in 19 mesi aveva raggiunto risultati incredibili: 100 milioni di visite al giorno, il 45 per cento del traffico di video complessivo. E ora, subito dopo essere stata acquistata da Google, You Yube ha firmato un accordo per la diffusione e la vendita di musica con Universal e Bmg (che sono due tra le più importanti case discografiche del mondo). Con questo nuovo business, per i prossimi anni, sono previsti 400 milioni di dollari di fatturato, che finiranno proprio nelle tasche di Google.

Per capire il tipo di impatto che You Tube ha negli Stati Uniti è sufficiente riportare un esempio. Il testimonial per la prossima campagna delle Nazioni Unite si chiama Lee Rose. E' un'attrice neozelandese diventata famosa in tutto il mondo con un video in cui faceva finta di essere rinchiusa in casa, seduta sul suo letto davanti a una webcam. Con la webcam, Lee Rose registrava dei filmati in cui faceva finta di raccontare la sua vita. I video venivano messi su You Tube. Pochi giorni fa si scopre che Lee Rose era, appunto, un'attrice e che aveva utilizzato You Tube soltanto per promuovere un nuovo format per un programma televisivo. Ma su You Tube ormai milioni di utenti l'avevano già vista. Tra questi anche qualcuno dell'Onu.

La scelta di acquistare You Tube rientra in una doppia strategia. Eric Schmidt non fa proprio nulla per nascondere il suo interesse per la televisione. Quindi, anche per il video. Perché se è vero che il futuro di Google è nella tv, il futuro della televisione sarà certamente su Internet, non sulla vecchia tv. Ed è per questo che il re della tv, Murdoch, ha investito sulla rete (con My Space). E' per questo che Google prima ha firmato un contratto con la nuova televisione realizzata dall'ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore (la Current tv) e poi ha acquistato anche You Tube. Ed è per la stessa ragione che anche Apple, ora, punta sulla tv. Grazie a Steve Jobs (amministratore delegato di Apple), ma soprattutto grazie ancora a Eric Schmidt, che dallo scorso 28 settembre è entrato a far parte del consiglio di amministrazione di Apple; dove ha trovato, come membro del comitato direttivo, proprio Al Gore (consulente, tra l'altro, anche di Google). Da quando Schmidt è arrivato, Apple ha iniziato a puntare proprio sulla televisione on line (la iTv). Con un suo nuovo programma presentato la prima settimana di settembre, Apple dovrebbe
iniziare a distribuire video e musica e vendere film su un piccolo dispositivo
portatile.

Ma Eric Schmidt non è soltanto un grande manager. Schmidt, a differenza di Bill Gates, è anche un'incredibile pedina nella politica americana. Per due ragioni. Primo: per le amicizie con i politici (democratici) americani e per il controllo delle notizie che Schmidt esercita con la rete. Con Google (attraverso un programma che si chiama Google News in grado di selezionare in tempo reale le notizie considerate più importanti e più attuali) e ora anche con You Tube. Nel 2004, con Google, Schmidt aveva versato il 98 per cento dei finanziamenti elettorali (circa 200 mila dollari)ai compagni democratici, raggiungendo il massimo delle donazioni possibili sia per John Kerry sia per Howard Dean. Quattro anni prima, insieme a sua moglie – anche lei grande finanziatrice dei democratici – aveva organizzato una delle
più importanti serate di raccolta fondi per Al Gore. Proprio nella casa dei coniugi Schmidt. Raccolsero diecimila dollari a persona, era il 2000. Ora Google è una delle cinque aziende che sono finanziate dal "Blue fund", un fondo azionario che investe soltanto ed esclusivamente in aziende i cui manager siano grandi finanziatori dei "Blues", dei democratici americani. Quindi Google, Starbucks, Gab, Costco e naturalmente anche Apple.


Ma la politica di Schmidt non si articola solo con i finanziamenti. Google fa politica anche con Google. E con la censura. Nel giro di pochi mesi tra le pagine
di Google sono stati cancellati alcuni siti conservatori (come New Media Journal,
Mich News, PHX News, Jawa Report), sono stati censurati molti blog antislamici, sono stati rifiutati annunci a pagamento per la sponsorizzazione di libri o saggi anti Clinton e non sono state accettate inserzioni (a pagamento, anche queste) di un sito conservatore (Right-March.com), critico nei confronti della democratica californiana Nancy Pelosi. Non solo. Schmidt ha recentemente versato un milione di dollari per finanziare il sito di estrema sinistra MoveOn.org.
Ed è anche per questo che Amnesty International ha già accusato Google di "complicità con le nazioni che vogliono impedire ai propri cittadini l'accesso alle informazioni on line". La ragione è molto semplice. Google gioca con due
parole inglesi con cui sta cercando sempre più di controllare cosa sia giusto far
apparire sulla rete e cosa invece no: gioca con le "hate speech". Hate speech significa discorsi di odio, parole non giuste, forme di espressione sbagliate che
da sole possono giustificare l'eliminazione delle pagine (e dei siti sgraditi) da
Google. Se una notizia o una pagina non si trova significa che non esiste. Ma l'oggettività degli hate speech, in realtà, non c'è. E' un'oggettività analizzata con una lente di ingrandimento che ha la forma della D dei democratici.

Schmidt, essendo anche il più anziano del triumvirato di Google, gioca molto con l'equivoco della soggettività oggettiva. Poche settimane fa, siamo ai primi di ottobre, Schmidt è stato ospite della convention dei conservatori inglesi.
Era a Londra, ha incontrato anche Tony Blair. Schmidt diceva così: "Uno dei miei messaggi ai politici è di pensare di avere ognuno dei propri elettori costantemente on line, che avviano un controllo vero o falso. Noi a Google potremmo essere in grado di offrire un'opportunità per averla a portata di mano". Tradotto: Internet è uno strumento pervasivo, passivo; ci sono tante informazioni, ce ne sono tante sbagliate e tante non giuste. La società cambia, noi cambiamo assieme alla società. Voi non potete seguirci a questi ritmi e quindi, tranquilli, ci pensiamo noi. Ve le diamo noi le informazioni giuste.

Ma la verità di Google è una verità viziata. Chi si collega sa (o almeno inconsciamente pensa) che Internet è democratico e quindi crede che ciò che si trova
su Google non abbia filtri. Non è così. E lo stesso discorso vale per You Tube, che da alcuni mesi ha iniziato a calibrare la sua censura su alcune precise tipologie di video politici. L'episodio più grave arriva il 4 ottobre. La giornalista onservatrice
Michelle Malkin aveva girato un video chiamato: "First, they came" ispirato ai cartoni animati su Maometto. Lo mette su You Tube. Nel video la giornalista mostra anche alcune vittime del fondamentalismo islamico. Alle 2.27 del 28 ottobre, la Malkin riceve una e-mail. E' il servizio di You tube. Il video è stato bloccato, a causa "contenuti inappropriati", come si legge nel testo della email ricevuta dalla giornalista.
La stessa cosa succede con un altro video ("It is in the Koran"), mentre un altro
caso di censura politica è stato registrato su un filmato (del regista David
Zucker) che prendeva in giro Bill Clinton per il modo in cui l'ex presidente degli
Stati Uniti non fece granché per fermare l'armamento atomico nordcoreano.
L'ultimo caso di censura è, però, del giorno successivo all'acquisto di Google.
E' il 12 ottobre. Su You Tube viene messo un video in cui Harry Reid, democratico del Nevada, prendeva per il collo un reporter dell'Associated Press. Il video, anche questo, è stato censurato.

Ma per capire cosa è davvero l'influenza di Internet (e di Google) nella diffusione delle informazioni, è sufficiente dare un'occhiata a qualche dato: Internet, soprattutto per gli under 26, negli Stati Uniti è la seconda via d'accesso a ogni tipo di news. Rispetto alle ultime elezioni di mid-term (quelle del 2002), gli americani che oggi si informano quotidianamente su Internet sono diventati 26 milioni. Il doppio rispetto a quattro anni fa. Cioè, quasi un quinto di
tutti gli americani che si collegano ogni giorno sulla rete. La metà di queste ricerche viene fatta su Google. Le grandi aziende se ne sono accorte. Internet stavolta non è più una bolla. Tira, ma non si sgonfia. Il risultato è che dei 283 miliardi di dollari investiti in pubblicità ogni anno, 29 miliardi finiscono su Internet e quasi 300 milioni arrivano nelle tasche di Eric Schmidt.

Il dipendente numero uno di Google si chiamava Craig Silverstein. Nel 1999 (sono passati soltanto sette anni), subito dopo la creazione del più importante motore di ricerca del mondo, diceva così: "Vorrei vedere i motori di ricerca diventare come i computer di Star Trek. Tu parli con loro e loro capiscono quello che vuoi".

Tutte le manovre realizzate da Schmidt sono in linea sia con queste parole sia con quelle di un documentario (da molti considerato profetico) girato da Robin Sloan e Matt Thompson qualche mese fa. Il documentario si chiama Epic e spiega in che modo, nel giro di otto anni, i giornali e le televisioni verranno sostituiti da una struttura informativa dal nome "Googlezon", frutto di un'ipotetica fusione tra Google e il più importante sito di vendite on line di libri: Amazon.
Google – spiegano i due studiosi – in questo modo sarà insieme giornale, televisione
e anche editore. Scoprirà quali sono gli interessi e le abitudini di consumo dei suoi utenti semplicemente grazie alle informazioni personali disseminate sulla rete. Studiando le biografie dei consumatori, esattamente come Page e Brin hanno studiato, cinque anni fa, la biografia di Schmidt, senza che nessuno gliel'avesse mai fornita direttamente.

Ma il successo di Eric Schmidt (attualmente centoventinovesimo uomo più ricco del mondo) è stato anche il primo vero successo in ambito informatico di una delle università più importanti degli Stati Uniti, Berkeley. Schmidt si è laureato qui, ma la maggior parte degli ingegneri delle più importanti aziende informatiche americane
si è laureata a Stanford. Ed è per questo che uno studente laureato a Stanford spesso arriva a ricoprire incarichi molto più importanti rispetto ai laureati di Berkeley. Almeno per quanto riguarda l'ambito informatico. Fino a sei anni fa tra le aule delle due università girava questa battuta: se un alunno di Berkeley si rivolge a un collega di Stanford non lo chiama "collega", lo chiama "capo". Ora, però, uno
dei capi più importanti del mondo è a Google e si chiama Eric Schmidt. A Berkeley non gli pare vero. E proprio per questo sta provando a far di tutto per valorizzare l'azienda in mano al primo studente di Berkeley che non deve chiamare capo uno studente di Stanford. E infatti, pochi giorni fa, per la prima volta un'importante università americana ha deciso di mettere in rete i contenuti video delle proprie lezioni su Google: Berkeley, naturalmente.

Ma c'è un altro dato da segnalare. Google sta collezionando una quantità incredibile di dati e di informazioni personali. Nei primi mesi del 2006 Schmidt ha fatto spendere alla sua azienda 345 milioni di dollari per ampliare proprio la capacità di archiviare informazioni. Schmidt lo aveva detto circa un anno fa: "Non sappiamo più dove mettere i dati". Perché tutti questi dati? La risposta è semplice: basti pensare, più che a quello che si può fare con Google, a quello che con Google non si può fare. Praticamente nulla. Mancavano i video e li hanno comprati. Mancava il mercato di vendita di prodotti on line e Schmidt si è accordato con eBay.

E proprio con eBay e quindi con Skype (che fa parte di eBay), Schmidt punta a conquistare un altro settore. Skype è il più importante servizio di telefonia
on line (il Voip). Con Skype, Schmidt potrebbe portare avanti un progetto incredibile. Partendo da San Francisco, Google, è arrivata a ricoprire Philadelphia e Chicago con una rete metropolitana di wi-fi molto lunga. Il wi-fi è un tipo di connessione che permette ai computer di collegarsi a Internet senza fili. Il progetto Schmidt lo ha portato avanti assieme a uno dei più importanti fornitori di collegamenti Internet americani, Earthlink. Google e Skype ci hanno già investito 21,7 milioni di dollari. L'obiettivo è creare un milione di punti di accesso wi-fi entro il 2010. In tutto il mondo. Questo che cosa significa? Significa che tra pochi anni potremmo avere un computer-iPod con funzioni da telefonino (costruito da Apple) che riceve le trasmissioni fatte su You Tube, che si collega alla rete attraverso una connessione fornita da Google, che per chiamare utilizza la tecnologia della telefonia del Voip (quindi di Skype) e che riceve notizie in tempo reale con il servizio di news del più grande motore di ricerca al mondo: Google. Notizie filtrate, censurate e spesso anche deviate. Come? Basta un ultimo esempio. Provate a scrivere su Google la parola "failure", fallimento. Primo risultato? Il sito della
Casa Bianca, con George W. Bush. Secondo esempio. Provate a scrivere (con la modalità di "mi sento fortunato"), la parola "fallimento" in italiano. E poi la
parola "basso di statura". Sempre su Google. Il risultato è lo stesso: il sito del presidente del Consiglio italiano, fino a sei mesi fa di proprietà di Silvio Berlusconi ma che ora, purtroppo per Google, è diventato proprio quello di Romano Prodi.

29 ottobre 2006

Piattaforme e tecnologie

Dispensa


Di televisione digitale ce n'è più d'una. Perché tante sono le infrastrutture distributive possibili (cavo, satellite, etere....); e tanti i protocolli e gli standard utilizzabili. Ciascuna tecnologia ha, come è ovvio, delle predisposizioni e delle limitazioni, degli elementi di forza e dei punti deboli. E se è giusto non operare discriminazioni fra le varie tecnologie (è il celebre principio della «neutralità tecnologica»), è sciocco non considerarne le vocazioni specifiche. Diciamo di più: molti sono anche i modelli di business praticabili dalla TV digitale (free-to-air, pay, pay per view,.....); molte le scelte industriali e «politiche» di fondo (verticalità, orizzontalità, interoperabilità...) e molte, e variabili, le forme di appropriazione sociale che le diverse combinazioni degli elementi citati scatenano. Cosicché sul mercato non si confrontano tanto le tecnologie, quanto le «piattaforme», entità complesse in cui si compongono tecnologia, modelli di business, forme d'offerta e «affordances» (cioè quelle proprietà di un oggetto che indicano come farne uso, secondo la celebre definizione di James J. Gibson). Ora, nell'evoluzione delle piattaforme e nel loro competere sul campo, vi sono molte dinamiche interessanti da analizzare. Ne segnalo alcune, che mi paiono particolarmente cruciali. 1. La prima è la tensione tra le vocazioni, i limiti, e le potenzialità, che tutte le piattaforme vivono. Per competere si cerca non solo di far leva sulle proprie disposizioni elettive, ma anche di aggirare, forzare, superare i propri limiti. Ad esempio, il decoder con Hard Disk e capacità per Alta Definizione rappresenta per le piattaforme broadcast (SKY, ma anche il digitale terrestre) un modo di ampliare le proprie potenzialità d'offerta. Allo stesso modo va considerata la spinta degli operatori telefonici mobili, oggi legati per lo più all'UMTS, verso le tecnologie broadcast, DVBH su tutte (Boscariol). 2. La seconda dinamica da indagare è la tensione tra chiusura e apertura delle piattaforme. Le medesime soluzioni tecnologiche si possono incarnare in configurazioni chiuse, proprietarie e autarchiche; oppure in architetture aperte, orizzontali, interoperabili. Ad esempio, la TV over IP può essere distribuita su reti private, con standard proprietari ad un numero selezionato di utenti, dotati di un decoder specifico; oppure sul web in modalità peer-to-peer, ad uso di tutti coloro che siano dotati di pc e di connettività broadband . Oppure ancora, quando sarà rilasciato lo standard DVB-IP su decoder standard, potrà essere distribuita su tutte le reti conformi. E' evidente che nella tensione tra chiusura e apertura si giocano molte delle partite decisive per la politica industriale del sistema digitale: quella del controllo dell'accesso; quella della completa interoperabilità e interconnessione di reti e piattaforme; quella dell'affermazione di standard "open source"; quella della sicurezza e della protezione dei contenuti; quella della rimozione degli abusi di posizione dominante; ecc... 3. La terza dinamica decisiva e' la tensione tra simmetria ed a-simmetria dei processi comunicativi che le piattaforme favoriscono. Alcune piattaforme - quelle basate su tecnologie broadcast satellitare o terrestre - configurano un rapporto essenzialmente a-simmetrico tra emittenti e pubblico. Esse stanno compiendo sforzi ingenti per sfumare questo dislivello, con l'introduzione di servizi e contenuti interattivi; ma la struttura del processo comunicativo non puo' che rimanere sbilanciata. Altre piattaforme, invece, - come quelle basate su reti broadband chiuse (IPTV) - si prestano assai meglio ad un riequilibrio dei ruoli, sollecitando un consumo personale ed una forte interattività . Altre piattaforme ancora, infine - come quelle basate sull'architettura aperta del web - inducono un processo comunicativo idealmente simmetrico e paritario, in cui chi tradizionalmente era chiamato solo a guardare cio' che gli era proposto puo' finalmente non solo scegliere proattivamente un prodotto individuale e dire la sua, ma anche "pubblicare" i propri contenuti video. Tv "dall'alto" e tv "dal basso" sono i due poli estremi di questa dialettica. 4. La quarta dinamica cruciale, infine, è la tensione tra testa e coda, o, se si preferisce, tra monte e valle della filiera in merito alla gestione delle «cache», cioè dei serbatoi di immagazzinamento dei contenuti prescelti dall'utente. Tali serbatoi saranno a monte o a valle? Se saranno a monte, saranno le telco a gestirli, garantendosi una posizione di forza come intermediari nel ruolo di fornitori di contenuti e servizi a valore aggiunto. Se invece saranno a valle, saranno gli utenti individuali a gestirli. Videostations, mediacenters, video-Pod, PVR con hard disk.... la memoria sarà distribuita nelle case e gli utenti la alimenteranno accedendo direttamente ai repository dei content providers o all'offerta organizzata dai packagers. Le telco in questo scenario potrebbero restare dei puri «facchini di bit». L'esito di questa tensione ha impatto ovviamente sull'architettura dei nuovi sistemi di TV digitale: a seconda di dove saranno l'intelligenza, la memoria, il valore aggiunto del processo, prevarranno gli uni o gli altri attori della filiera. I contributi di questa seconda sezione illustrano bene come gli ambiti chiave della TV digitale (la TV satellitare, la TV terrestre, la mobile TV, e 1'IPTV) siano attraversati da queste quattro dinamiche.

28 ottobre 2006

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Dispensa


Nella prima fase di introduzione della TV digitale, l'offerta di contenuti si è moltiplicata, articolandosi -in ciascun mercato- in decine di canali tematici, per lo più all'interno di bouquet a pagamento. La parola d'ordine è segmentazione: affiancare ai pochi grandi canali generalisti una serie di proposte mirate, volte a soddisfare i gusti di numerosissimi segmenti di mercato. Sport, cinema, serie, intrattenimento, news, factual, life-style, cartoon....: tutti i generi sono stati esplorati e ogni canale ha cercato, nel suo ambito, un proprio posizionamento distintivo.Sotto il profilo economico e strategico va notato che questa evoluzione dell'offerta ha visto la nascita di molti editori, soprattutto in seno ai grandi gruppi conglomerati dell'audiovisivo. Questo significa che coloro che fino ad allora erano eminentemente contet providers, e che rimangono ancora tali nella filiera analogica, nella filiera digitale diventano packagers, cioè editori in proprio, segnando un passo decisivo verso valle nel processo di integrazione verticale.I packagers "indipendenti" che dominano la filiera analogica europea (i grandi broadcaster pubblici e privati) nell'ambiente digitale rischiano dunque di rimanere schiacciati tra i grandi produttori internazionali (fornitori di contenuti e ora editori in proprio) e gli aggregatori, cioè gli operatori di piattaforma (come Sky). Questo li spinge a rivedere il proprio posizionamento sul mercato e a cercare, a seconda dei casi, di far leva sull'attuale posizione di forza nel mondo free-to-air per generare nuovi canali come spin-off di quelli affermati (è il fenomeno degli slave channels o dei canali frutto di brand extension); o di cercare delle alleanze con le grandi conglomerate per presidiare assieme dei segmenti importanti di pubblico (va letta in questo senso la partnership di Mediaset con Turner-Warner, per il canale Boing).Nella seconda fase evolutiva della TV digitale, come abbiamo visto, televisione e televisore si separano. La TV dunque "esce" dal televisore e si avventura per nuove strade, attraverso piattaforme diverse, e ricercando sempre il modo di adattarsi ai nuovi contesti. Se nella prima fase, il digitale aveva spinto la TV "semplicemente" a moltiplicare e segmentare la propria offerta di contenuti, ora la tecnologia cambia da dentro la TV, influenzandone la progettazione editoriale e modificando le forme di consumo: enhancement dei programmi, interattività, accesso on demand, mobilità, ecc... La personalizzazione è il nuovo imperativo.Evidentemente tutto ciò favorisce smottamenti all'interno della filiera televisiva. Oltre ai content providers che divengono anche packagers (le majors USA), abbiamo packagers che diventano aggregatori e service providers (Mediaset Premium), aggregatori/service providers che diventano packagers (Sky, attraverso canali a marchio Fox), fornitori d'accesso che diventano aggregatori (Telecom con Alice) o addirittura editori/packagers (H3G con i canali La 3), aggregatori che diventano fornitori d'accesso (BSkyB con Easynet), ecc...,Com'è facile comprendere, a questa metamorfosi si accompagna una profonda ridefinizione della natura e delle forme del diritto di sfruttamento economico del prodotto editoriale. Se nel mondo analogico il diritto è in qualche modo "solido", suddivisibile facilmente in grandi fette, a ciascuna delle quali corrisponde ad uno step della filiera (per esempio, per il film: theatrical, home video, pay TV, free TV,.....), nel mondo digitale la necessità di operare distinzioni sempre più sottili (ora per tecnologia trasmissiva, ora per modalità di distribuzione, ora per offerta commerciale, ...) porta ad un diritto frantumato, quasi polverizzato. Avvisaglia di un diritto "liquido" - impossibile da frazionare e definito solo dall'ambiente contenitore che lo accoglie- che potrebbe caratterizzare il futuro della gestione dei contenuti. Se, ad esempio, in un domani non troppo lontano, un'unica meta-rete IP (fissa, mobile, wireless) innervasse il nostro ambiente e ad essa potessero accedere i devices fissi (videostations, PC, ....) o mobili (palmari, telefoni, Pod,...), tutti dotati di memoria privata; e se su questa rete fossero disponibili sempre e dovunque tutti i contenuti, per una funzione live o differita, o, ancora on demand, non sarebbe questo l'habitat di un "iper-contenuto" multi-platform e del suo relativo multi-forme diritto "liquido"?Ma soprattutto sono le valenze editoriali e linguistiche dei contenuti -la loro natura, i formati, i codici,.... - a subire le trasformazioni più profonde una volta entrati nell'ambiente digitale. Anche i contenuti che apparentemente restano gli stessi ( i film, le serie, gli eventi sportivi,....), in realtà si modificano, si arricchiscono (nuovi formati video: HD, 16:9, sottotitoli; doppio audio; testi e grafiche con informazioni a corredo, ecc...) e si guadagnano una nuova funzione d'uso a seconda delle piattaforme su cui viaggiano (lo stesso film è una cosa diversa se visto su schermo TV normale, su PC, su monitor HD o su videofonino).Più spesso però i contenuti nati per lo schermo TV devono adattarsi ai nuovi ambienti: sul mobile ad esempio le soap e le serie si frammentano in mini-blocchi ("mobisode") e i film vengono spezzati in stream di 10 minuti, attivabili on demand. E anche sui videoportali broadband i prodotti canonici televisivi si articolano in segmenti fruibili a richiesta.Nascono poi contenuti nuovi, concepiti apposta per il nuovo ambiente degli "audiovisivi di rete": è il caso delle soap multiplatform, come la portoghese Diario de Sofia; ma anche dei video blog, degli shorts comici e spettacolari che girano sulla rete (celebre la serie "metti le Mentos in una bottiglia di Diet Coke"), dei mini reality casalinghi ripresi dalle web cam.Difficile dire quali "dimensioni" del contenuto TV si modificheranno davvero nel nuovo ambiente digitale. Il contenuto "dal basso" soppianterà quello "dall'alto"? Le modalità di offerta a consumo non lineari prevarranno su quelle lineari? I prodotti brevi -"snack"- metterano in crisi i prodotti strutturati e articolati su un arco temporale più lungo? Il consumo differito (time-shift) è dislocato (place-shift o mobility) richiederà una nuova progettualità di palinsesto? Il consumo individuale forzerà l'abbandono della logica del comune denominatore, che ha sempre guidato la creatività televisiva, e inaugurerà la stagione del "fatto su misura"? La qualità dello schermo, che sempre più si polarizza fra qualità (grandi dimensioni e HD) e praticità (piccole dimensioni, portabilità) metterà alla prova lo standard unico e universale della TV, favorendo la nascita di almeno "due TV"? Prematuro sbilanciarsi in previsioni.